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Le relazioni tra imprenditori verranno analizzate dall’interno, nelle dinamiche che contraddistinguono le condotte che devono essere tenute perché gli imprenditori possano considerarsi leali rivali. Nasce dall’esigenza di impedire la concorrenza selvaggia e senza quartiere. L’imprenditore è il soggetto che agisce sul mercato per realizzare un fine egoistico di produzione di un utile attraverso la commercializzazione di un prodotto o la prestazione di un servizio. Un imprenditore, per poter raggiungere questo fine egoistico ed utilitaristico, non può far ciò che vuole per conquistare il cliente ma deve fare quello che è necessario per promuovere il prodotto nel rispetto dell’attività altrui. Devono esistere regole di condotta che permettano a tutti di arrivare al proprio obiettivo senza tentare in maniera scorretta e sleale di eliminare l’altro rivale. La corsa del singolo imprenditore all’accorpamento della clientela deve essere considerata come una gara che si innesta tra operatori del mercato che si rivolgono agli stessi clienti e in cui l’arbitro che decreta il vincitore è il consumatore. Il sistema funziona se la gara che si innesta vede il consumatore finale come giudice chiamato a premiare il migliore. Solo il consumatore deve poter avere questo ruolo e deve essere portato a scegliere un prodotto rispetto ad un altro dalla qualità dello stesso, dal miglior rapporto qualità-prezzo e non da altri elementi che fuoriescono da una valutazione che il consumatore è chiamato a fare sulla base del risultato che vede. Questo deve essere ciò che porta il consumatore ad effettuare la sua scelta, e non altre azioni intraprese in maniera scorretta a un imprenditore per sviare a sé la clientela.

Le relazioni tra imprenditori verranno analizzate dall’interno, nelle dinamiche che contraddistinguono le condotte che devono essere tenute perché gli imprenditori possano considerarsi leali rivali. Nasce dall’esigenza di impedire la concorrenza selvaggia e senza quartiere. L’imprenditore è il soggetto che agisce sul mercato per realizzare un fine egoistico di produzione di un utile attraverso la commercializzazione di un prodotto o la prestazione di un servizio. Un imprenditore, per poter raggiungere questo fine egoistico ed utilitaristico, non può far ciò che vuole per conquistare il cliente ma deve fare quello che è necessario per promuovere il prodotto nel rispetto dell’attività altrui. Devono esistere regole di condotta che permettano a tutti di arrivare al proprio obiettivo senza tentare in maniera scorretta e sleale di eliminare l’altro rivale. La corsa del singolo imprenditore all’accorpamento della clientela deve essere considerata come una gara che si innesta tra operatori del mercato che si rivolgono agli stessi clienti e in cui l’arbitro che decreta il vincitore è il consumatore. Il sistema funziona se la gara che si innesta vede il consumatore finale come giudice chiamato a premiare il migliore. Solo il consumatore deve poter avere questo ruolo e deve essere portato a scegliere un prodotto rispetto ad un altro dalla qualità dello stesso, dal miglior rapporto qualità-prezzo e non da altri elementi che fuoriescono da una valutazione che il consumatore è chiamato a fare sulla base del risultato che vede. Questo deve essere ciò che porta il consumatore ad effettuare la sua scelta, e non altre azioni intraprese in maniera scorretta a un imprenditore per sviare a sé la clientela.


Anche questa risposta ha una matrice storica, noi italiani siamo arrivati a codificare una disciplina della concorrenza con il C.C. (1942), ma prima di questa data? Non esistevano regole? Gli imprenditori combattevano in modo selvaggio? Non c’era una disciplina interna nazionale, però qualche riferimento c’era ed ha influenzato molto la codificazione del 1942. Esisteva una convenzione internazionale, CONVENZIONE DELL’UNIONE DI PARIGI, che era stata emanata nel 1893, a cui avevano aderito vari paesi e che prevedeva alcune regole che sono state replicate nel nostro codice sulla concorrenza. Si utilizza come tecnica normativa quella di indicare cosa non doveva fare l’imprenditore per poter essere considerato leale. Venne indicato un catalogo di operazioni vietate, indicate nel dettaglio e genericamente considerate contrarie ad usi onesti in materia commerciale e industriale. L’art. 2598 disciplina gli atti di concorrenza sleale. Dunque anche il nostro legislatore nello stabilire regole di condotta optò per la tecnica normativa di indicare cosa non debba essere fatto, di stabilire la regola di condotta attraverso l’indicazione di un divieto. Vengono dunque indicate le operazioni sicuramente ritenute di concorrenza sleale. Al di là dell’art. 2598 le operazioni sono consentite; ciò che resta fuori da questo articolo può essere attuato dall’imprenditore per accaparrarsi la clientela e risultare vincitore alla corsa nella conquista del mercato. La norma ha una rilevanza fondamentale perché ha consentito di poter offrire una disciplina all’illecito concorrenziale, autonoma rispetto a quella che altrimenti in via residuale sarebbe stata invocata per porre un freno alla concorrenza selvaggia. 

All’illecito extracontrattuale dell’art. 2043, perché le relazioni tra imprenditori che agiscono autonomamente nella propria sfera di mercato e gli imprenditori concorrenti non sono legati da un vincolo contrattuale tale da poter invocare una responsabilità contrattuale. L’art. 2598 specializza l’illecito extracontrattuale, lo rende tipico come illecito concorrenziale, con un vantaggio e livello di tutela dell’imprenditore che subisce concorrenza sleale notevole. Se l’imprenditore, che ritiene di aver subito un atto sleale del rivale, potesse invocare solo il 2043, potrebbe ottenere solo un risarcimento del denaro, visto che tale articolo è strutturato per accordare una tutela di tipo obbligatorio. Ciò non può soddisfare a pieno l’imprenditore, che ha bisogno non di un risarcimento del danno, ma dell’inibitoria (obbligo di cessare la condotta sleale), che è una tutela reale. L’art. 2598, oltre a prevedere l’ordine di cessazione della condotta sleale, può far seguire, se necessario, il risarcimento del denaro.

ELEMENTO OGGETTIVO: Bisogna che vi sia tra due o più imprenditori un rapporto di concorrenza. Due soggetti sono in un rapporto di concorrenza sotto due profili: 

PROFILO MERCEOLOGICO  Sono concorrenti quando operano nello stesso settore, quindi quando gli imprenditori producono beni uguali o affini, quindi idonei a soddisfare lo stesso bisogno del consumatore. Da un punto di vista merceologico c’è concorrenza se gli imprenditori producono beni o prestano servizi idonei a soddisfare lo stesso bisogno. L’affinità viene definita come la capacità di soddisfare il medesimo bisogno anche in modo succedaneo (sostitutivo); i prodotti soddisfano lo stesso bisogno pur non essendo identici, considerando il bisogno in senso lato, generico. C’è concorrenza anche se a livello generale si soddisfa un bisogno della stessa natura. La giurisprudenza ha ancor meglio specificato, dicendo che dobbiamo ritenere il rapporto di concorrenza anche per prodotti affini che tecnicamente soddisfano bisogni diversi ma della stessa natura; il rapporto di concorrenza li si deve individuare anche solo a livello potenziale.  "PROFILO TERRITORIALE" Soggetti che non avranno mai la possibilità di rivolgersi alla medesima clientela, per questioni di distanza territoriale, non saranno mai in concorrenza tra loro. Esistono poi attività che hanno un’estensione territoriale talmente ampia che si trovano inevitabilmente in concorrenza con tutti gli imprenditori, anche piccoli, che operano nello stesso settore. Il profilo territoriale definisce e circoscrive il rapporto di concorrenza, specie quando si prende in considerazione imprenditori che sono entrambi, a livello geografico, circoscritti nello stesso ambito di operatività.

CONCORRENZA OGGETTIVA: vi è concorrenza oggettiva quando, per questioni di tipo merceologico o territoriale, due o più imprenditori si dirigono verso la stessa clientela. In altri termini, l’operato di un imprenditore tendenzialmente svia la clientela che altrimenti si rivolgerebbe all’altro. 

CONCORRENZA SOGGETTIVA: perché vi sia concorrenza è necessario che entrambi i soggetti siano imprenditori. 

IMPRENDITORE : colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi; quindi devono ricorrere i seguenti elementi:

1. Esercizio di un’attività economica: i ricavi devono supportare i costi; deve esservi almeno la possibilità di ottenere un pareggio di bilancio, non è quindi necessario che vi sia un guadagno da parte dell’imprenditore 

2. La produzione o lo scambio di beni e servizi: deve essere prodotto qualcosa di nuovo, o devono essere prestati dei servizi. Non ci si può limitare al mero godimento del bene: se ad esempio possiedo un immobile e mi limito ad affittarlo non posso essere considerato un imprenditore; al contrario, invece, se trasformo l’immobile in un residence allora diventerei un imprenditore dato che svolgerei servizi quali ad esempio le pulizie, il cambio biancheria, eccetera 

3. Organizzazione dell’attività economica: deve sussistere un coordinamento dei fattori produttivi (K e L)

 4. Esercizio professionale dell’attività: attività svolta in modo ripetitivo, non casuale .

Nota: tutti questi quattro elementi sono necessari, affinché si possa essere considerati imprenditori; se ne manca anche solo uno non si rientra nella definizione.

In teoria le norme sulla CONCORRENZA SLEALE non si applicano se entrambi i soggetti coinvolti non sono imprenditori; tuttavia in molti ritengono che tale disciplina dovrebbe essere applicata anche quando siamo di fronte a soggetti non tipicamente qualificabili come imprenditori ma che svolgono un’attività che rispecchia alcuni di quei quattro parametri elencati; basti pensare ad esempio a quei liberi professionisti (o prestatori d’opera intellettuale) che possiedono un’attività su larga scala e con un impiego di forza-lavoro rilevante, equiparabile nella sostanza ad un’attività imprenditoriale, ma alla quale non viene applicato il regime della concorrenza sleale. C’è quindi chi pretende un’estensione delle regole sulla concorrenza sleale anche ai liberi professionisti. Questo problema ad oggi è tendenzialmente risolto, almeno nella sostanza, dal fatto che quasi tutti i CODICI DEONTOLOGICI delle libere professioni contengono norme sulla concorrenza sleale che in parte replicano quelle della concorrenza sleale imprenditoriale. Si tratta di regole mutuate dal diritto della concorrenza commerciale.

Nota:i 3 principali atti di concorrenza sleale sono: 

1. Atti confusori 

2. Atti di denigrazione (mirano a gettare discredito sui concorrenti): è l’atto che più probabilmente si verificherà nella concorrenza tra liberi professionisti 

3. Atti di appropriazione di pregi (vanteria)

I codici deontologici, tuttavia non hanno la stessa forza vincolante di una regolamentazione presente nel Codice Civile; essi avranno piuttosto una forza vincolante relativa (VALIDA SOLO PER CHI ADERISCE) ed inoltre, prevedranno, per chi non li rispetta, sanzioni di tipo disciplinare. Come già detto, da un punto di vista soggettivo, affinché si possa parlare di concorrenza, è necessario che entrambi i soggetti interessati siano imprenditori; tuttavia non è detto che debbano avere la stessa natura (commerciale, agricolo...) o trovarsi allo stesso livello della catena del valore (produttori, dettaglianti, grossisti…), anche imprenditori posti a differenti livelli, infatti, potrebbero rappresentare un problema di sviamento della clientela. Esempio si potrebbe presentare un problema di potenziale sviamento della clientela anche tra imprenditori collocati a differenti livelli della catena di produzione, è il classico esempio di un produttore che gioca un tiro mancino al dettagliante se tramite un atto di concorrenza sleale svia la clientela dallo stesso, favorendo un dettagliante a lui rivale. Il rapporto di concorrenzialità può essere verificato come sussistente ai fini della applicazione della disciplina, in quanto materialmente l’illecito concorrenziale è compiuto da un soggetto che non riveste la qualità imprenditore, ma che si può provare abbia agito nell’interesse dell’imprenditore (CONCORRENZA SLEALE PER INTERPOSTA PERSONA). In questo caso, colui che agisce non è un imprenditore, tuttavia è imprenditore colui che trae beneficio dall’azione sleale. Le sanzioni per l’illecito tramite interposta persona riguarderanno sia l’imprenditore che colui che ha agito in suo favore (CONCORRENZA IN ILLECITO). Se colui che ha agito è un dipendente dell’imprenditore allora sarà quest’ultimo a rispondere, se invece si tratta di un soggetto autonomo, in virtù della sua autonomia risponderà anch’egli della propria condotta (CONCORSO IN ILLECITO).

Passiamo ora ad analizzare l’art. 2598, ovvero quello inerente gli atti di concorrenza sleale. Questo articolo, suddiviso in 3 numeri, si apre inserendo nei primi due i 3 ATTI DI CONCORRENZA SLEALE TIPICI, cioè quegli atti di concorrenza sleale sicuramente ritenuti tali. Al NUMERO 1 troviamo gli atti confusori (o di confondibilità); al NUMERO 2, invece, abbiamo sia gli atti di appropriazione di pregi che gli atti di denigrazione; in ultimo, al NUMERO 3 abbiamo una cosiddetta clausola di chiusura, una categoria residuale, la quale ci dice che: compie atti di concorrenza sleale chiunque si avvale, direttamente o indirettamente, di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda. Per poter comprendere l’essenza dell’atto di concorrenza sleale dobbiamo partire proprio da questa clausola di chiusura e capire cosa significhino i due presupposti richiesti:

*NON CONFORMITÀ AI PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE.

*IDONEITÀ A DANNEGGIARE L’ALTRUI AZIENDA.

1) NON CONFORMITÀ AI PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE Non è facile per il legislatore dare un contenuto preciso a questo presupposto dato che è piuttosto ambiguo e non specificato. Il parametro della correttezza crea sempre problemi all’interprete anche perché spesso può essere sovrapposto con termini più o meno simili quali diligenza, buonafede, ecc. A questi parametri occorre necessariamente attribuire dati oggettivi, non basta dire che essere corretti significa “comportarsi bene” in quanto il “comportarsi bene è un dato soggettivo e soggetto a variazioni nel tempo (il comportarsi bene di oggi non è il comportarsi bene di ieri). Per capire cos’è la correttezza professionale, dobbiamo anzitutto capire cosa si intende con il termine correttezza, che sovente viene usato in materia di diritto, ad esempio come nel caso di esecuzione del contratto. Innanzitutto possiamo tornare ai concetti di buonafede soggettiva ed oggettiva utilizzati in materia di obbligazioni: 

Buonafede Soggettiva: stato psicologico che deriva dall’ignoranza di ledere il diritto altrui.

Buonafede Oggettiva: tende a coincidere con il concetto di correttezza, e si riferisce alla capacità di soddisfare l’interesse altrui adempiendo a tutti gli obblighi di protezione di quel contratto, quindi non basta eseguire semplicemente la prestazione oggetto del contratto, ma sii deve fare quanto necessario affinché l’altro sia pienamente soddisfatto.

Diligenza: è la misura dell’impegno, dello sforzo che il soggetto è chiamato a profondere nell’esecuzione dell’obbligo su esso gravante





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Le relazioni tra imprenditori verranno analizzate dall’interno, nelle dinamiche che contraddistinguono le condotte che devono essere tenute perché gli imprenditori possano considerarsi leali rivali. Nasce dall’esigenza di impedire la concorrenza selvaggia e senza quartiere. L’imprenditore è il soggetto che agisce sul mercato per realizzare un fine egoistico di produzione di un utile attraverso la commercializzazione di un prodotto o la prestazione di un servizio. Un imprenditore, per poter raggiungere questo fine egoistico ed utilitaristico, non può far ciò che vuole per conquistare il cliente ma deve fare quello che è necessario per promuovere il prodotto nel rispetto dell’attività altrui. Devono esistere regole di condotta che permettano a tutti di arrivare al proprio obiettivo senza tentare in maniera scorretta e sleale di eliminare l’altro rivale. La corsa del singolo imprenditore all’accorpamento della clientela deve essere considerata come una gara che si innesta tra operatori del mercato che si rivolgono agli stessi clienti e in cui l’arbitro che decreta il vincitore è il consumatore. Il sistema funziona se la gara che si innesta vede il consumatore finale come giudice chiamato a premiare il migliore. Solo il consumatore deve poter avere questo ruolo e deve essere portato a scegliere un prodotto rispetto ad un altro dalla qualità dello stesso, dal miglior rapporto qualità-prezzo e non da altri elementi che fuoriescono da una valutazione che il consumatore è chiamato a fare sulla base del risultato che vede. Questo deve essere ciò che porta il consumatore ad effettuare la sua scelta, e non altre azioni intraprese in maniera scorretta a un imprenditore per sviare a sé la clientela.

Le relazioni tra imprenditori verranno analizzate dall’interno, nelle dinamiche che contraddistinguono le condotte che devono essere tenute perché gli imprenditori possano considerarsi leali rivali. Nasce dall’esigenza di impedire la concorrenza selvaggia e senza quartiere. L’imprenditore è il soggetto che agisce sul mercato per realizzare un fine egoistico di produzione di un utile attraverso la commercializzazione di un prodotto o la prestazione di un servizio. Un imprenditore, per poter raggiungere questo fine egoistico ed utilitaristico, non può far ciò che vuole per conquistare il cliente ma deve fare quello che è necessario per promuovere il prodotto nel rispetto dell’attività altrui. Devono esistere regole di condotta che permettano a tutti di arrivare al proprio obiettivo senza tentare in maniera scorretta e sleale di eliminare l’altro rivale. La corsa del singolo imprenditore all’accorpamento della clientela deve essere considerata come una gara che si innesta tra operatori del mercato che si rivolgono agli stessi clienti e in cui l’arbitro che decreta il vincitore è il consumatore. Il sistema funziona se la gara che si innesta vede il consumatore finale come giudice chiamato a premiare il migliore. Solo il consumatore deve poter avere questo ruolo e deve essere portato a scegliere un prodotto rispetto ad un altro dalla qualità dello stesso, dal miglior rapporto qualità-prezzo e non da altri elementi che fuoriescono da una valutazione che il consumatore è chiamato a fare sulla base del risultato che vede. Questo deve essere ciò che porta il consumatore ad effettuare la sua scelta, e non altre azioni intraprese in maniera scorretta a un imprenditore per sviare a sé la clientela.


Anche questa risposta ha una matrice storica, noi italiani siamo arrivati a codificare una disciplina della concorrenza con il C.C. (1942), ma prima di questa data? Non esistevano regole? Gli imprenditori combattevano in modo selvaggio? Non c’era una disciplina interna nazionale, però qualche riferimento c’era ed ha influenzato molto la codificazione del 1942. Esisteva una convenzione internazionale, CONVENZIONE DELL’UNIONE DI PARIGI, che era stata emanata nel 1893, a cui avevano aderito vari paesi e che prevedeva alcune regole che sono state replicate nel nostro codice sulla concorrenza. Si utilizza come tecnica normativa quella di indicare cosa non doveva fare l’imprenditore per poter essere considerato leale. Venne indicato un catalogo di operazioni vietate, indicate nel dettaglio e genericamente considerate contrarie ad usi onesti in materia commerciale e industriale. L’art. 2598 disciplina gli atti di concorrenza sleale. Dunque anche il nostro legislatore nello stabilire regole di condotta optò per la tecnica normativa di indicare cosa non debba essere fatto, di stabilire la regola di condotta attraverso l’indicazione di un divieto. Vengono dunque indicate le operazioni sicuramente ritenute di concorrenza sleale. Al di là dell’art. 2598 le operazioni sono consentite; ciò che resta fuori da questo articolo può essere attuato dall’imprenditore per accaparrarsi la clientela e risultare vincitore alla corsa nella conquista del mercato. La norma ha una rilevanza fondamentale perché ha consentito di poter offrire una disciplina all’illecito concorrenziale, autonoma rispetto a quella che altrimenti in via residuale sarebbe stata invocata per porre un freno alla concorrenza selvaggia. 

All’illecito extracontrattuale dell’art. 2043, perché le relazioni tra imprenditori che agiscono autonomamente nella propria sfera di mercato e gli imprenditori concorrenti non sono legati da un vincolo contrattuale tale da poter invocare una responsabilità contrattuale. L’art. 2598 specializza l’illecito extracontrattuale, lo rende tipico come illecito concorrenziale, con un vantaggio e livello di tutela dell’imprenditore che subisce concorrenza sleale notevole. Se l’imprenditore, che ritiene di aver subito un atto sleale del rivale, potesse invocare solo il 2043, potrebbe ottenere solo un risarcimento del denaro, visto che tale articolo è strutturato per accordare una tutela di tipo obbligatorio. Ciò non può soddisfare a pieno l’imprenditore, che ha bisogno non di un risarcimento del danno, ma dell’inibitoria (obbligo di cessare la condotta sleale), che è una tutela reale. L’art. 2598, oltre a prevedere l’ordine di cessazione della condotta sleale, può far seguire, se necessario, il risarcimento del denaro.

ELEMENTO OGGETTIVO: Bisogna che vi sia tra due o più imprenditori un rapporto di concorrenza. Due soggetti sono in un rapporto di concorrenza sotto due profili: 

PROFILO MERCEOLOGICO  Sono concorrenti quando operano nello stesso settore, quindi quando gli imprenditori producono beni uguali o affini, quindi idonei a soddisfare lo stesso bisogno del consumatore. Da un punto di vista merceologico c’è concorrenza se gli imprenditori producono beni o prestano servizi idonei a soddisfare lo stesso bisogno. L’affinità viene definita come la capacità di soddisfare il medesimo bisogno anche in modo succedaneo (sostitutivo); i prodotti soddisfano lo stesso bisogno pur non essendo identici, considerando il bisogno in senso lato, generico. C’è concorrenza anche se a livello generale si soddisfa un bisogno della stessa natura. La giurisprudenza ha ancor meglio specificato, dicendo che dobbiamo ritenere il rapporto di concorrenza anche per prodotti affini che tecnicamente soddisfano bisogni diversi ma della stessa natura; il rapporto di concorrenza li si deve individuare anche solo a livello potenziale.  "PROFILO TERRITORIALE" Soggetti che non avranno mai la possibilità di rivolgersi alla medesima clientela, per questioni di distanza territoriale, non saranno mai in concorrenza tra loro. Esistono poi attività che hanno un’estensione territoriale talmente ampia che si trovano inevitabilmente in concorrenza con tutti gli imprenditori, anche piccoli, che operano nello stesso settore. Il profilo territoriale definisce e circoscrive il rapporto di concorrenza, specie quando si prende in considerazione imprenditori che sono entrambi, a livello geografico, circoscritti nello stesso ambito di operatività.

CONCORRENZA OGGETTIVA: vi è concorrenza oggettiva quando, per questioni di tipo merceologico o territoriale, due o più imprenditori si dirigono verso la stessa clientela. In altri termini, l’operato di un imprenditore tendenzialmente svia la clientela che altrimenti si rivolgerebbe all’altro. 

CONCORRENZA SOGGETTIVA: perché vi sia concorrenza è necessario che entrambi i soggetti siano imprenditori. 

IMPRENDITORE : colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi; quindi devono ricorrere i seguenti elementi:

1. Esercizio di un’attività economica: i ricavi devono supportare i costi; deve esservi almeno la possibilità di ottenere un pareggio di bilancio, non è quindi necessario che vi sia un guadagno da parte dell’imprenditore 

2. La produzione o lo scambio di beni e servizi: deve essere prodotto qualcosa di nuovo, o devono essere prestati dei servizi. Non ci si può limitare al mero godimento del bene: se ad esempio possiedo un immobile e mi limito ad affittarlo non posso essere considerato un imprenditore; al contrario, invece, se trasformo l’immobile in un residence allora diventerei un imprenditore dato che svolgerei servizi quali ad esempio le pulizie, il cambio biancheria, eccetera 

3. Organizzazione dell’attività economica: deve sussistere un coordinamento dei fattori produttivi (K e L)

 4. Esercizio professionale dell’attività: attività svolta in modo ripetitivo, non casuale .

Nota: tutti questi quattro elementi sono necessari, affinché si possa essere considerati imprenditori; se ne manca anche solo uno non si rientra nella definizione.

In teoria le norme sulla CONCORRENZA SLEALE non si applicano se entrambi i soggetti coinvolti non sono imprenditori; tuttavia in molti ritengono che tale disciplina dovrebbe essere applicata anche quando siamo di fronte a soggetti non tipicamente qualificabili come imprenditori ma che svolgono un’attività che rispecchia alcuni di quei quattro parametri elencati; basti pensare ad esempio a quei liberi professionisti (o prestatori d’opera intellettuale) che possiedono un’attività su larga scala e con un impiego di forza-lavoro rilevante, equiparabile nella sostanza ad un’attività imprenditoriale, ma alla quale non viene applicato il regime della concorrenza sleale. C’è quindi chi pretende un’estensione delle regole sulla concorrenza sleale anche ai liberi professionisti. Questo problema ad oggi è tendenzialmente risolto, almeno nella sostanza, dal fatto che quasi tutti i CODICI DEONTOLOGICI delle libere professioni contengono norme sulla concorrenza sleale che in parte replicano quelle della concorrenza sleale imprenditoriale. Si tratta di regole mutuate dal diritto della concorrenza commerciale.

Nota:i 3 principali atti di concorrenza sleale sono: 

1. Atti confusori 

2. Atti di denigrazione (mirano a gettare discredito sui concorrenti): è l’atto che più probabilmente si verificherà nella concorrenza tra liberi professionisti 

3. Atti di appropriazione di pregi (vanteria)

I codici deontologici, tuttavia non hanno la stessa forza vincolante di una regolamentazione presente nel Codice Civile; essi avranno piuttosto una forza vincolante relativa (VALIDA SOLO PER CHI ADERISCE) ed inoltre, prevedranno, per chi non li rispetta, sanzioni di tipo disciplinare. Come già detto, da un punto di vista soggettivo, affinché si possa parlare di concorrenza, è necessario che entrambi i soggetti interessati siano imprenditori; tuttavia non è detto che debbano avere la stessa natura (commerciale, agricolo...) o trovarsi allo stesso livello della catena del valore (produttori, dettaglianti, grossisti…), anche imprenditori posti a differenti livelli, infatti, potrebbero rappresentare un problema di sviamento della clientela. Esempio si potrebbe presentare un problema di potenziale sviamento della clientela anche tra imprenditori collocati a differenti livelli della catena di produzione, è il classico esempio di un produttore che gioca un tiro mancino al dettagliante se tramite un atto di concorrenza sleale svia la clientela dallo stesso, favorendo un dettagliante a lui rivale. Il rapporto di concorrenzialità può essere verificato come sussistente ai fini della applicazione della disciplina, in quanto materialmente l’illecito concorrenziale è compiuto da un soggetto che non riveste la qualità imprenditore, ma che si può provare abbia agito nell’interesse dell’imprenditore (CONCORRENZA SLEALE PER INTERPOSTA PERSONA). In questo caso, colui che agisce non è un imprenditore, tuttavia è imprenditore colui che trae beneficio dall’azione sleale. Le sanzioni per l’illecito tramite interposta persona riguarderanno sia l’imprenditore che colui che ha agito in suo favore (CONCORRENZA IN ILLECITO). Se colui che ha agito è un dipendente dell’imprenditore allora sarà quest’ultimo a rispondere, se invece si tratta di un soggetto autonomo, in virtù della sua autonomia risponderà anch’egli della propria condotta (CONCORSO IN ILLECITO).

Passiamo ora ad analizzare l’art. 2598, ovvero quello inerente gli atti di concorrenza sleale. Questo articolo, suddiviso in 3 numeri, si apre inserendo nei primi due i 3 ATTI DI CONCORRENZA SLEALE TIPICI, cioè quegli atti di concorrenza sleale sicuramente ritenuti tali. Al NUMERO 1 troviamo gli atti confusori (o di confondibilità); al NUMERO 2, invece, abbiamo sia gli atti di appropriazione di pregi che gli atti di denigrazione; in ultimo, al NUMERO 3 abbiamo una cosiddetta clausola di chiusura, una categoria residuale, la quale ci dice che: compie atti di concorrenza sleale chiunque si avvale, direttamente o indirettamente, di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda. Per poter comprendere l’essenza dell’atto di concorrenza sleale dobbiamo partire proprio da questa clausola di chiusura e capire cosa significhino i due presupposti richiesti:

*NON CONFORMITÀ AI PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE.

*IDONEITÀ A DANNEGGIARE L’ALTRUI AZIENDA.

1) NON CONFORMITÀ AI PRINCIPI DI CORRETTEZZA PROFESSIONALE Non è facile per il legislatore dare un contenuto preciso a questo presupposto dato che è piuttosto ambiguo e non specificato. Il parametro della correttezza crea sempre problemi all’interprete anche perché spesso può essere sovrapposto con termini più o meno simili quali diligenza, buonafede, ecc. A questi parametri occorre necessariamente attribuire dati oggettivi, non basta dire che essere corretti significa “comportarsi bene” in quanto il “comportarsi bene è un dato soggettivo e soggetto a variazioni nel tempo (il comportarsi bene di oggi non è il comportarsi bene di ieri). Per capire cos’è la correttezza professionale, dobbiamo anzitutto capire cosa si intende con il termine correttezza, che sovente viene usato in materia di diritto, ad esempio come nel caso di esecuzione del contratto. Innanzitutto possiamo tornare ai concetti di buonafede soggettiva ed oggettiva utilizzati in materia di obbligazioni: 

Buonafede Soggettiva: stato psicologico che deriva dall’ignoranza di ledere il diritto altrui.

Buonafede Oggettiva: tende a coincidere con il concetto di correttezza, e si riferisce alla capacità di soddisfare l’interesse altrui adempiendo a tutti gli obblighi di protezione di quel contratto, quindi non basta eseguire semplicemente la prestazione oggetto del contratto, ma sii deve fare quanto necessario affinché l’altro sia pienamente soddisfatto.

Diligenza: è la misura dell’impegno, dello sforzo che il soggetto è chiamato a profondere nell’esecuzione dell’obbligo su esso gravante